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a cura di:
dott. Daniele Trevisani
dott. Daniele Trevisani

Oltre l'eredità mentale e gli esempi ricevuti

Andare oltre l’eredità mentale e gli esempi ricevuti, e amplificare l’espressività

Esprimersi è importante. Anche e soprattutto nelle arti marziali e negli sport di combattimento, possiamo trovare una forma di espressione umana.

Dobbiamo però introdurre una distinzione importante prodotta dalla ricerca scientifica sull’espressività, una distinzione che ogni trainer deve conoscere.

In letteratura si distingue un’espressività positiva (generativa di idee e progetti) e un’espressività negativa (poter manifestare stati di disagio, lasciare fuoriuscire le emozioni negative), su cui il patrimonio mentale ricevuto dai genitori ha notevole effetto (Kolak & Volling) ¹.

Esiste quindi uno sfondo importante del potenziale personale, il Modeling familiare e sociale: esempi ricevuti, comportamenti visti che si insinuano “per vicinanza” nei nostri stessi modi di fare, nei pensieri. I , modelli comportamentali e mentali cui siamo stati esposti ci fanno da sfondo e agiscono spesso a nostra insaputa. Tutti subiamo in qualche misura un imprinting psicologico (modellamento precoce al quale siamo stati esposti nella crescita), e un imprinting sul modo di condurre una lezione, di gestire un gruppo, di essere Maestri (es, quanto essere o meno duri, quanto essere o meno aggressivi, etc.)

In questo substrato si trovano apprendimenti positivi e negativi.

La buona notizia è quindi il fatto che le forme di espressività siano numerose. La cattiva è che nelle arti marziali e negli sport di combattimento il fronte dell’espressività negativa (esprimere disagio, ansie, paure) venga amputato, nascosto, considerato spesso negativo o come qualcosa di cui vergognarsi. E. se non bastasse, altra cattiva notizia è che possiamo tranquillamente iniziare a pensare che non tutto ciò che noi abbiamo appreso sia sempre e solo buono, e che gli esempi che ci hanno formato siano sempre e solo positivi.

Negare le paure non è corretto. Negare che un Maestro possa avere insegnato anche qualcosa di sbagliato non è corretto. Questo non è vero atteggiamento marziale, né vero atteggiamento combattivo. Ogni maestro deve imparare a rendere coscienti gli allievi delle loro paure, accettarle, lavorarvi sopra, senza vergognarsene. E deve chiedersi se per caso non stia instillando egli stesso concetti o esempi sbagliati.

In caso contrario perderemo per strada ogni allievo che non sia stato così fortunato da avere un padre e una madre campioni di pedagogia e esempi perfetti in ogni campo. Perderemmo larga parte degli allievi.

Ognuno di noi insegna riferendosi anche ai modelli di insegnanti e Maestri che egli stesso ha avuto. Un processo di osmosi invisibile e inevitabile passa di generazione in generazione, di allenamento in allenamento. Ma noi possiamo prendere coscienza di questo.

Prendere coscienza di cosa di buono abbiamo assimilato nella nostra crescita e formazione (risorse attive), di cosa invece non abbiamo assimilato (risorse assenti), e dei modelli sbagliati appresi, i modelli che ci danneggiano, la spazzatura mentale che ci circola dentro, è un’operazione eccezionale.

Se potessimo passare al setaccio ogni nostra debolezza, timore, paura, insuccesso, riusciremmo ad arrivare alla radice delle credenze “tossiche” per il nostro sistema, le idee acquisite che ci appartengono ma ci danneggiano.

Ogni singola credenza dannosa che ci assedia da dentro è come un sasso nel nostro motore. Rompe gli ingranaggi, inceppa, arresta, frena, distrugge.

Es: la credenza “devo sempre essere il massimo in ogni campo, sempre” a lungo termine sviluppa ansia, manie, depressione, tensione permanente e corrosiva. La sua impossibilità materiale di concretizzarsi genera frustrazione continua, e non solo stimolo positivo. Se lo portiamo dentro, da dove viene? Quando l’abbiamo imparato? Da chi? E soprattutto, vogliamo trasmetterla ai nostri allievi?

O ancora: “la fortuna dipende solo dal destino: puoi fare ciò che vuoi, ma tanto tutto è già scritto”, produce disimpegno verso lo studio e l’imprenditorialità, genera lassismo e pressapochismo. Se tutto è già scritto, a cosa serve impegnarsi per qualcosa?

Da dove viene questa spazzatura? Quando e da chi è stata appresa?

Oppure immaginiamo quanto la credenza “devi farcela da solo, se chiedi sei un debole” possa impedire ad un leader di apprendere a delegare correttamente, o invece produrre un accentratore incapace di gestire davvero un team, o di fidarsi nel assegnare un obiettivo.

Un caso ancora: il problema dell’utilizzare larga parte del proprio tempo libero a guardare programmi stupidi in televisione anziché dedicarlo alla propria crescita o a contenuti attivi. Da dove viene? Dove lo abbiamo appreso?

Al Modeling sociale precoce, che non è frutto di una scelta o libero arbitrio, il sistema HPM (vedi www.studiotrevisani.it/hpm2) vuole aggiungere un modeling diverso, frutto di una decisione della persona, un atto di coraggio, un grido di emancipazione.

Si tratta di una scelta di come e dove utilizzare il proprio tempo positivamente, di quali credenze liberarsi, di quale “cultura” nutrirsi invece di “digerire” a forza ciò che il sistema culturale dominante a ha sinora passato. Si tratta di esaminare cosa di buono e cosa di negativo abbiamo appreso dai nostri Maestri e istruttori e decidere di fare pulizia, senza per questo rinnegare il loro contributo e il nostro passato.

HPM lavora soprattutto come metodo di sviluppo nel quale la persona possa valutare la propria situazione in termini di energie, smontare alcune delle “celle” del proprio sistema, capire come radicarsi, e poi procedere in avanti: essere protagonista del proprio sviluppo, in modo autonomo. Lavora inoltre come sistema di riferimento per i coach e trainer che vogliono assistere le persone e le imprese in questo viaggio.

Che si usi come sistema di analisi della persona la piramide HPM, o altri sistemi più classici  – come la tassonomia di Bloom centrata sui “saperi”, “saper essere”, e “saper fare” ² – l’essenziale è localizzare in quale direzione sono possibili avanzamenti, e dove agire.

Trovato un buon livello di ancoraggio, o grounding (radicamento), è possibile per ogni persona osare oltre, dare spazio alla propria espressività.

È decisamente vero, quindi, che l’espressività è un tratto in parte appreso, e riceviamo in eredità un dono (se presente, forte, ben accessibile) o un handicap sociale (se inibita, castrata, amputata).

In particolare la figura paterna ha un ruolo leggermente prevalente nell’esprimersi in progetti costruttivi (espressività positiva), mentre la figura materna ha un ruolo leggermente prevalente nel fare da contenitore emotivo, insegnando l’espressività negativa, cioè la nostra capacità di liberare le emozioni negative e non trattenerle dentro a macerare ³.

Se il patrimonio genitoriale o culturale non è così fortunato, cosa si dovrebbe fare? Arrendersi? Non è il nostro progetto. E se invece fosse magnificamente fortunato, perché non chiedersi cosa possiamo noi conquistare ancora, al di là di quello che abbiamo ricevuto? E come praticare una self-contribution, o contributo autonomo, invece di adagiarsi su quanto ricevuto da altri? Ciò che si conquista vale sempre più di ciò che si riceve gratis.

Riuscire ad esprimersi in progetti, in risultati, nello sport, nel lavoro, nella leadership, o nel comunicare, è qualcosa che si può decidere di apprendere, non è solo questione di genetica o di fortuna.

Nella nostra visione, dobbiamo concentrarci su quello che possiamo fare, e non solo sui limiti. Esistono sfere della vita che sono in nostro potere, zone di obiettivi su cui si può intervenire. Non farlo è sprecare la vita.

Fare focusing (focalizzare e ri-focalizzare), in questo caso, significa prendere coscienza di nuovi traguardi, fare luce su cosa sia vero e falso, esaminare la quantità di bugie e abbagli annidate nelle presunte sfere di impossibilità e possibilità, fare un bilancio, dirigersi verso nuovi orizzonti.



¹ Kolak, Amy M., Volling, Brenda L. (2007), Parental Expressiveness as a Moderator of Coparenting and Marital Relationship Quality, Family Relations, v. 56, n. 5, pp. 467-478, Dec.
² Bloom Benjamin, S., Krathwohl, David R. (1956), Taxonomy of Educational Objectives. The Classification of Educational Goals, by a committee of college and university examiners. Handbook I: Cognitive Domain, New York, Longmans, Green.
³ Wong, Maria S., Diener, Marissa L., Isabella, Russell A. (2008), Parents’ Emotion Related Beliefs and Behaviors and Child Grade: Associations with Children’s Perceptions of Peer Competence, Journal of Applied Developmental Psychology, v. 29, n. 3, pp. 175-186, May-Jun.